L’incontro

L’incontro

Una domenica notte come tante, le pulizie prima di chiudere il locale. Domani finalmente si riposa, giorno di chiusura. Ero stanco, ma soddisfatto. Il ristorante funzionava bene, soprattutto la sera, i posti erano sempre esauriti. Bisognava prenotare con almeno tre settimane di anticipo e la lista d'attesa riempiva un foglio intero dell'agenda. Presi un sacco pieno di spazzatura dalle mani di uno dei ragazzi della cucina, che mi guardò stupito.
«Lascia, lo porto io. Così mi fumo una sigaretta.» Dissi rassicurandolo.
Uscii dalla porta di servizio, posta sul retro del locale, che dava su un vicolo poco illuminato. Gettai il sacco nel cassone metallico della spazzatura e finalmente mi accesi la sigaretta. Non ero un fumatore accanito, ma era forse un pretesto per staccare un po' la spina dal lavoro. L'autunno stava avanzando e l'aria era umida e fresca sul mio viso, un brivido piacevole mi pervadeva tutto il corpo. Mi rilassai, gustandomi ad ampie boccate il fumo del tabacco. Il fine settimana era stato veramente intenso, i miei ragazzi erano stati veramente impeccabili. Gli avevo scelti uno ad uno, era stato necessario del tempo prima di riuscire a formare una squadra unita e affiatata. Non ero il loro capo, ma il loro fratello maggiore, vista la differenza di età, che seguivano con rispetto e fiducia. Mi scorrevano nella mente le immagini degli inizi di questa avventura, i momenti più allegri e quelli di maggior tensione. Vedendoli così da lontano, facevano meno paura. A distogliermi dai miei pensieri, alcuni movimenti provenienti dall'altro lato della strada, a poca distanza da me, di alcuni cartoni accatastati contro la parete dell'edificio. Pensai subito a qualche animale in cerca di cibo o di riparo. Sporgendomi e guardando meglio, vidi un individuo intento a prendere dei cartoni e piegarli, probabilmente per poterli portare via agevolmente, pensai. Lui si accorse di me. Devo essergli sembrato uno spettro, essendo tutto vestito di bianco e con il fumo che usciva dalla mia bocca. Si bloccò immediatamente, restando a fissarmi per capire le mie intenzioni. Scappare, voleva dire lasciare il suo bottino di scatole di cartone sapientemente selezionate e piegate. Gli sorrisi, alzando una mano in segno di saluto. 
«Ciao, tranquillo non sono della polizia.» Dissi scherzando in tono amichevole.
Lui, un po' perplesso, alzò timidamente la mano, quasi imitandone il mio gesto, senza dire nulla.
«Posso avvicinarmi?» Gli domandai con tono pacato e rassicurante.
Lui annuì timidamente con la testa. Spensi la sigaretta nel portacenere appoggiato sul ripiano della finestra e mi avvicinai con passo lento. Era un ragazzo di giovane età, forse non aveva più di venticinque anni, non molto alto, magro, capelli neri come la pece e la pelle olivastra. A circa un paio di metri da lui, mi fermai.
«Mi chiamo Dante e tu?» Domandai al ragazzo.
Restò a guardarmi, immobile, con una scatola di cartone tra le mani. Stava cercando di decifrare  chi fossi, le mie intenzioni e cosa avessi voluto da lui.
«Parli italiano?» Lo incalzai con un leggero sorriso.
Lui si scioglie e con un lieve sorriso, risponde:
«Abhay...mio nome. Parlo poco italiano.» 
Parlammo per diversi minuti, cercando in qualche modo di comprendersi reciprocamente. Mi raccontò che proveniva dal Bangladesh e da qualche mese si trovava nel nostro paese per cercare lavoro, ma senza successo. Non si aspettava di incontrare diverse difficoltà, una volta finiti i soldi, si trovò nelle stesse condizioni dei barboni della città. Facendosi coraggio e con il suo miglior sorriso che poteva offrirmi, mi domanda:
«Tuo capo ha lavoro per Abhay?» 
«Non lo so, ma posso chiederlo...senti, torna qui martedì mattina verso le dieci. Suona al campanello che vedi a fianco a quella porta, ti farò parlare con lui.» Risposi sorridendo, indicandogli con la mano il punto esatto. Lui mi sorrise sollevato e accennò ad un inchino di ringraziamento. Infilai una mano nella tasca dei pantaloni e con un gesto sconsiderato – trovandomi in un vicolo poco illuminato di una grande città, a notte fonda e con uno sconosciuto -  estrassi un fermabanconote, sfilai due banconote da cinquanta euro e allungando la mano verso di lui, gli dissi: 
«Tieni, è un regalo. Cerca di venire vestito bene e mangia...mi raccomando.»
Lui non sapeva cosa fare, sembrava indeciso, forse gli sembrava troppo quella fortuna capitata per caso in una notte d'autunno. Poi allungò il braccio verso di me e li prese. 
«Grazie...grazie. Martedì vengo, vengo.» Rispose con un pacato entusiasmo, inchinandosi e sorridendo, con i palmi delle mani giunte sotto il mento.
Nascose subito le banconote nella tasca interna della giacca, prese i suoi cartoni e si allontanò. Stetti a guardarlo mentre si allontanava, chissà se lo avrei rivisto, pensai. Mi sentivo di aver fatto una cosa buona, di aver condiviso una piccola parte di felicità con un altro essere umano. Rientrai nella cucina del locale. Non c'era più nessuno, solo Guido, il mio caposala. 
«Ah sei qui. Ma doveri finito? I ragazzi ti cercavano, volevano salutarti...» Chiese con curiosità.
«Niente, ero fuori a fumare e ho fatto quattro passi.» Risposi rassicurandolo. Probabilmente con un leggero e egnimatico sorriso.

Martedì mattina la sveglia suonava molto presto, a causa degli impegni di inizio settimana. Dovrò passare dal fruttivendolo per fare la spesa, che mi consegnerà prima delle undici e fare una serie di telefonate ad altri fornitori. Prima delle dieci arrivo al ristorante, caffé con Guido e una breve chiaccherata riguardo al lavoro e non solo. Indosso i miei abiti da lovoro e mi immergo nel mio mondo. I miei tre collaboratori sono già al lavoro, non avevano bisogno di sentirsi dire da me quello che devono fare. Mi accorsi che erano già le dieci e mezza passate, quando mi ricordai di Abhay. Dove sarà finito? Gli avevo detto di essere puntuale alle dieci? Mi domandai. Forse mi ero illuso un po' troppo, si era preso i cento euro ed era sparito. Cosa dovevo aspettarmi da un povero immigrato e pure illegale? Era stata una prova di fiducia, alquanto disattesa, a quanto pare. Pazienza, sarò più accorto la prossima volta, se dovesse capitare di nuovo. 
Poco prima delle undici, suonò il campanello. Eccolo! Pensai. Alex va ad aprire la porta: era il fruttivendolo con la consegna di frutta e verdura.
«Scusa il ritardo, ho trovato traffico più del solito...bah, ci sarà qualche solito sciopero!» Disse, poi aggiunse: «Fate attenzione c'è un tipo strano che gironzola qua fuori.»
nel sentire quelle parole, uscii fuori dalla porta del retro: lui era lì.
«Abhay, cosa fai lì...ti avevo detto alle dieci? Vieni cosa aspetti?» Gli chiesi, cercando di mantenere un tono pacato. Venne verso di me a passo svelto dicendo:
«Scusa...scusa, fatto tardi?»
«E' successo qualcosa?» Gli domandai preoccupato.
«No, no...bene, bene..io non so ora, non ho orologio.» Rispose con un certo imbarazzo.
Mi uscì fuori una risata che cercai di contenere, essendo una evidente sua difficoltà opposta ad una abitutidine di pensare che ogni persona possegga un orologio, come ogni altro strumento di uso comune. Gli appoggiai una mano rassicurante sulla spalla e lo invitai ad entrare. Una zaffata di aroma profumato mi arrivò alle narici. 
«Ci siamo fatti belli, vuoi impressionare il mio capo?» Gli domandai con tono scherzoso.
«Io lavato, comprato vestiti e mangiato. Come detto tu.» Mi rispose.
I miei collaboratori ci guardarono incuriositi, mentre abhay si sentiva disorientato, come un animale fuori dal suo ambiente naturale. 
Gli spiegai cosa avrei voluto che lui facesse per me: lavare pentole, pavimenti e fornelli a fine turno. Lui rispose timidamente che avrebbe provato a fare del suo meglio. 
«Bene, ti metto alla prova. Loro sono i tuoi colleghi: Alex, Teo e Nico. Da oggi fai parte della squadra.» Gli annunciai battendogli una mano sulla spalla. Lo presentai ai ragazzi, un po' perplessi, forse per la scelta di una persona gracile e extracomunitaria, ma si sentivano sollevati per non dover più lavare a turno le pentole e aver due braccia in più nelle pulizie a fine turno. Abhay si guardò intorno e con tono sommesso mi domanda:
«Capo? Non c'è capo?»
«Vuoi conoscere il nostro capo? Sei sicuro?» Domandai con aria seria e preoccupata.
Lui annuì muovendo la testa. Sembrava avesse il timore di ricevere un diniego dal fantomatico titolare del ristorante, dopo averlo incontrato. 
«Ragazzi, Abhay vuole conoscere il nostro capo, che ne dite, glielo presento?» Dissi con tono serio.
Gli altri mi guardarono con aria perplessa, lo sapevano che l'unico proprietario del locale era Dante, lo chef. Quindi cosa aveva in mente? Forse prendersi gioco di quel povero ragazzo?
Lo accompagnai nella sala da pranzo. Guido era intento a sistemare l'agenda delle prenotazioni e i cartellini da appoggiare sui tavoli. Per il ruolo che gli compete, era sempre ben vestito e ben curato nell'aspetto, anche quando non era orario di apertura. Chi fosse entrato in quel momento, lo avrebbe senz'altro preso per il titolare del ristorante.
«Capo, mi scusi, volevo presentarle un nuovo collaboratore per la cucina. Mi serve per il lavaggio pentole e pulizie. Vorrei il suo assenso. Grazie» Dissi, rivolgendomi a Guido con tono semi serio.
Lo sguardo interrogativo di Guido svanì quasi subito, guardando l'espressione del mio viso. Capì e stette al gioco. Lo guardò dalla testa ai piedi, gli fece qualche domanda di circostanza e con sommaria decisione, sentenziò che il ragazzo poteva andare bene per le mansioni richieste. Ringraziai Guido con un tono ossequioso, forse troppo, visto che mi diede un'occhiata di compatimento. Subito dopo lo accompagnai nel guardaroba e gli diedi due cambi di divisa. Dissi a Nico di fargli vedere quello che doveva fare per iniziare e tornai da Guido.
«Chiama quell'avvocato che tu conosci bene, che viene tutte le settimane a cena e senti per la pratica di regolarizzazione per il ragazzo...Ah senti anche quella che lavora in comune che viene a pranzo tutti i giorni, vedi se ti da qualche dritta per velocizzare la pratica...» Gli dissi con tono serio e determinato. 
«Ma sei sicuro? Non lo hai visto ancora lavorare...da quanto tempo lo conosci?» Domandò scettico. 
«Tranquillo, nel giro di una settimana saprò la risposta, intanto portiamoci avanti...in un modo o in un altro, voglio aiutare questo ragazzo.» Conclusi.

Abhay era un ragazzo sveglio, imparava alla svelta e non si lamentava mai, a tal punto che avrebbe lavorato anche per ventiquattro ore di seguito. Si integrò bene nel gruppo con il suo modo di fare, gentile e premuroso, servì ben presto la renderlo la mascotte della squadra. Ormai erano trascorsi più di quattro anni dal nostro incontro nel vicolo, era stato regolarizzato come emigrante per avere un lavoro in regola. Aveva trovato un piccolo appartamento in affitto nella periferia della città, grazie ad una mia conoscenza. Un giorno, durante il pranzo a fine servizio che facevamo in cucina, ci comunicò l'arrivo di sua moglie tra pochi giorni, avendo ottenuto il ricongiungimento coniugale. Ci siamo tutti complimentati con lui e, se non fosse contro la sua religione, avrei stappato una bottiglia di bollicine per festeggiare. Ci siamo accontentati di una bevanda gassata al gusto di arancia. 
Il giorno previsto per l'arrivo della moglie di Abhay all'aeroporto, a fatica e con un certo imbarazzo, mi chiese il permesso di doversi assentare dal lavoro. Lo fulminai con lo sguardo.
«Cosa aspetti, vai...corri! Se fosse stato un altro giorno, ti avrei accompagnato io stesso!...e non tornare qui, stai a casa. Ci vediamo domani.» Gli dissi quasi rimproverandolo.
Il giorno dopo Abhay entrò in cucina, a suo modo, raggiante. Non era una persona che manifestava in modo evidente il proprio entusiasmo, il suo estremo era quello di guardarti con un ampio sorriso a denti bianchi e gli occhi che brillavano di riconoscenza per quanto la vita gli aveva donato, sia anche solo un buon piatto di cibo. Ci raccontò brevemente che il viaggio era andato bene, ma era disorientata per essere in un paese diverso e, non conoscendo la lingua, il disagio aumentava. Comunque, erano felici di essersi finalmente riabbracciati, dopo quasi cinque anni di lontananza. 
Una sera, mentre era intento a pulire il pavimento della cucina, se fermò davanti alla vetrina refrigerata dei dolci, dove appoggiavamo al suo interno le torte e i dessert a fine giornata. Si fermò a fissare il contenuto per qualche decina di secondi. Successivamente si guardò intorno, per accertarsi che nessuno lo avesse visto, e riprese a pulire. Lo vidi dall'oblò di vetro della porta che divide la cucina dalla sala da pranzo. 
Il mattino seguente, arrivai al ristorante alle sette, mi ero messo in testa di fare una cosa da solo, senza che gli altri ne fossero a conoscenza. Di solito, i miei ragazzi arrivano verso le nove, Guido anche più tardi. In poco più di un'ora, avevo terminato e mi concessi il primo caffé della giornata con una sigaretta, soddisfatto del risultato. Uscì dal locale prima che arrivasse qualcuno, per effettuare il solito giro dei fornitori e rientrai al ristorante in tempo per bere il consueto caffè con Guido, senza destare nessun sospetto. Era una bella giornata di primavera, il sole scaldava i muri dei palazzi della città con i sui raggi e il tempo nel locale era trascorso serenamente tra un piatto e un altro. Alla sera, prima dell'orario di cena, facciamo uno spuntino verso le ore 18,00 in cucina, mangiando tutti insieme come una famiglia. Al termine mettiamo via le sedie, puliamo e ci prepariamo per iniziare il lavoro. 
«Abhay, tu stasera vai a casa prima, e niente obiezioni. Intesi?» Gli dissi guardandolo in viso con aria seria. 
Lui mi guardò con uno sguardo interrogativo, cercando di trovare risposte in quanto accaduto durante la giornata. 
«Perché? Ho fatto qualcosa di sbagliato?» Mi chiese.
«No, non hai fatto nulla di sbagliato, ma voglio che tu ti riposi. Ti vedo stanco.» Risposi, sempre con tono serio e distaccato.
Gli altri sembravano non capire, con loro non avevo mai avuto con questo atteggiamento, ma ormai non si meravigliavano più di nulla e stettero ad ascoltare con curiosità.
«No, non sono stanco...posso lavorare io.» Disse con tono quasi supplichevole.
«Ho deciso, prenditi la serata di riposo. Qui ci pensiamo noi, non ti preoccupare...» Risposi, mentre mi incamminavo verso la cella frigorifera. Aprii la pesante porta metallica ed entrai al suo interno, riapparendo immediatamente con una scatola di cartone con un vistoso fiocco bianco. 
«Questa è per questa sera...vai a casa e festeggia con tua moglie, te lo meriti.» Così dicendo, consegnai la scatola tra le mani di Abhay.
«Per me?...cos'è?» Domandò con aria sorpesa e imbarazzata.
«E' una cosa che aprirai quando sarai a casa. Adesso muoviti, qui abbiamo da fare.» Risposi, mettendogli fretta.
Lui sembrava frastornato e indeciso. Andò a cambiarsi gli abiti e uscì dal locale dopo aver salutato e ringraziato tutti quanti. S'incamminò verso le scale della metropolitana, per prendere il treno che lo avrebbe portato verso casa un po' prima del solito quella sera. Aveva gli occhi umidi e qualche lacrima di felicità gli scese sulle guance, mentre un leggero sorriso comparve sul suo viso. Non vedeva l'ora di essere a casa, di riabbracciare sua moglie e di aprire insieme il regalo di Dante.

«Dante, vieni al telefono!...è il pronto soccorso!» Disse Guido spalancando la porta della cucina con il telefono portatile in mano. Gli strappai il telefono dalla mano e domandai immediatamente cos'era successo alla voce che arrivava dall'altro capo. Mi spiegò quanto si presume fosse accaduto e lo stato attuale di salute di Abhay, rassicurandomi che non era grave. Chiesi l'indirizzo dell'ospedale e avvisai che a breve sarei stato sul posto. Dissi ai ragazzi quanto accaduto e mi congedai da loro, dicendogli di finire di pulire e andarsene a casa a riposare, ci saremmo visti il giorno dopo e gli avrei aggiornati sulla faccenda. Mi cambiai velocemente gli abiti, mentre Guido mi chiamò un taxi. Quando arrivai lui era ancora adagiato in un lettino del pronto soccorso dell'ospedale. Aveva il viso tumefatto dai colpi ricevuti, un occhio nero e la palpebra gonfia, che gli impediva di aprire l'occhio e il labbro superiore spaccato. Il fianco destro e la spalla gli facevano male e faceva fatica a muovere il braccio. Gli abiti sporchi e la giacca strappata in vari punti. Non erano tanto gravi le ferite evidenti sul suo corpo, ma quelle che aveva dentro, che si erano riaperte. Quando mi vide iniziò a piangere e a scusarsi di avermi disturbato per avermi fatto arrivare fin lì nel cuore della notte. 
«Mi spiace, mi spiace...non sapevo chi chiamare per aiuto...» Disse con le lacrime che gli scendevano fino alla bocca. 
«Non ti preoccupare, hai fatto bene a farmi chiamare. Stai tranquillo adesso...siamo come una famiglia, no...?» Dissi, cercando di rassicurarlo.
Parlai con il medico di turno che gli aveva prestato le cure: per fortuna niente di rotto, sarebbe guarito in una ventina di giorni. Lo avevano trovato in uno dei corridoi della metropolitana, vicino casa sua, una coppia di vigilanti, volontari per la sicurezza dei cittadini. Gli avevano dato i primi soccorsi e chiamato l'ambulanza per il trasporto in ospedale. Era stato picchiato da una banda di balordi, probabilmente per il colore della sua pelle. 
«Dante, grazie del dolce...non so dov'è finito, non so...» Mi disse riferito alla scatola con il fiocco bianco. 
«Non fa niente, te ne farò un'altra...adesso andiamo via di qui. Ti porto a casa.» Risposi.
Sbrigai le pratiche con l'infermiera e ci avviammo verso l'uscita spingendo Abhay seduto sulla sedia a rotelle. Il taxi mi attendeva fuori dall'ospedale. Lo feci salire sull'auto e lungo la strada verso la casa di Abhay, informai al telefono Guido su quanto successo. Il tragitto non era stato molto lungo. Una volta arrivati dissi al tassista di attendere e lo accompagnai sostenendolo fino al terzo piano del palazzo in cui viveva. Abhay aveva paura della reazione della moglie nel vederlo in quelle condizioni, ma purtroppo si doveva affrontare questo triste momento. Erano già le due di notte quando la porta dell'appartamento si aprì e apparve una donna minuta in abiti tradizionali con il velo sulla testa. Quando lo vide, spalancò gli occhi assonnati e si portò le mani verso il viso, esclamando qualcosa che non riuscii a capire. Lui cercò di rassicurarla, nella sua stessa lingua, per come interpretai il suono delle sue parole. Lo accompagnai fino in camera e lo feci sedere sul bordo del letto. Guardandolo in viso gli dissi:
«Adesso ti fai una bella dormita, riposati e cerca di guarire presto. Passo fra qualche giorno per vedere come stai. Va bene?»
lui fa cenno di si con la testa, accenna un sorriso e aggiunse:
«Grazie Dante.»
Sorrisi alla moglie e senza aggiungere altro, feci cenno di voler uscire. Lei mi accompagnò alla porta, ripetendo qualcosa nella sua lingua, che mi sembrò come un ringraziamento. Sull'uscio dell'appartamento, mi voltai e portai le mani giunte sotto il mento e con un sorriso le augurai: 
«Buonanotte.» 

Trascorsero una decina di giorni da quella notte. Lui si era già ripreso e voleva tornare al lavoro: lo capisco, ma fino alla fine della malattia era fuori discussione. Gli avevo acquistato un telefono portatile, in modo che potessimo sentirci ogni tanto e nel caso avesse bisogno di qualcosa. Due giorni prima lo avevo avvisato che i ragazzi volevano vederlo e ci eravamo accordati per lunedì seguente, giorno di chiusura del locale. Saremmo andati tutti insieme a fargli visita. Lunedì pomeriggio alle 16, ci ritrovammo tutti sotto casa sua. Ognuno portò qualcosa preparato con le proprie mani per l'occasione. Guido non si scomodò più di tanto, attingendo qualche bottiglia dal bar del ristorante. Ovviamente, niente alcolici. Ci presentammo tutti e cinque davanti alla porta d'ingresso. Al suono del campanello, lui ci venne ad aprire accogliendoci con un sorriso gioioso sul viso. Ci accomodammo tutti in soggiorno e ognuno iniziò a porgere i vari sacchetti e pacchetti che aveva tra le mani. Io rimasi in fondo al gruppo che si complimentava o scherzava con Abhay. L'appartamento era piccolo: un soggiorno, una piccola cucina, il bagno e una camera da letto. La moglie uscì dalla camera vestita in abiti tradizionali color verde smeraldo e con il velo blu che gli copriva la testa e parte del viso. Salutò con un semplice e timido “ciao” e aggiunse qualcos'altro che Abhay tradusse simultaneamente. Quando arrivò il mio turno tolsi dal sacchetto una scatola di cartone color crema con un fiocco bianco e lo porsi ad Abhay. Ci fu un breve sguardo d'intesa fra di noi, lui capì che quello era il regalo che avevo fatto per lui e sua moglie. Si rivolse verso di lei, disse alcune parole incomprensibili, ma con un tono amorevole. Lei lo ascoltava con gli occhi pieni d'amore. Ogni tanto, rivolgeva lo sguardo verso di me, compresi che in quelle parole c'era una parte che mi riguardava. Gli porse la scatola nelle mani, lei l'appoggiò sul tavolo e iniziò a disfare il fiocco bianco con delicatezza. Tutti stavano in silenzio, in segno di profondo rispetto. Aprì la scatola e sul suo viso si dipinse un'espressione di stupore. Portò le mani al petto e rivolgendosi verso di me, mi fece un inchino pronunciando alcune parole.
«Grazie di questi doni, che dio benedica ogni tuo passo.» Mi tradusse prontamente Abhay.
Tolse la torta dalla scatola e la porse al centro del tavolo: mi ero ispirato al sandesh, un tipico dolce del Bangadlesh, per il colore e la forma. Al centro una piccola targa di zucchero riportava una frase scritta in lingua bengali: “Benvenuta nella mia nuova vita. Abhay”.
Lui si emozionò e in uno slancio di commozione mi abbracciò. Forse, in quella notte umida e fredda di cinque anni fa, mi era stata data un'occasione di fare qualcosa di buono, forse di salvare una vita umana da un destino tragico. Se ognuno avesse l'opportunità di salvare un solo essere umano, l'umanità potrebbe salvarsi da sola. Quando puoi aiutare qualcuno sii grato. Perché la vita ti ha messo nella condizione di poter dare e non di dover chiedere.

«Questa è stessa torta di quella notte?» Mi chiese mentre mangiava la sua fetta di torta.
«No, non proprio. C'è un particolare diverso.» Risposi.
«E quale?» Domanda.
«La scritta. In quella precedente era in italiano, ma ho pensato era più corretto che fosse in bengali, visto che era un regalo per tua moglie.» Risposi.
«Ma non conosci la mia lingua.» Disse con curiosità.
«Infatti, lo copiata da un traduttore su internet. Ti giuro, è stata la cosa più lunga e complicata da fare di quel dolce.» Risposi in modo ironico.
Entrambe scoppiammo in una fragorosa risata.  

(Pietro A. 4 Dicembre 2022) Immagine da internet. 

Pietro

Related Posts

Storia Zen

Storia Zen

L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello. (frammento)

L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello. (frammento)

Il Dono

Il Dono

Un’idea di destino

Un’idea di destino